La storia musicale del nostro paese di giganti ne ha visti molti: Vivaldi, Stradivari, Verdi, Puccini se vogliamo pensare alla classica e alla lirica, ma anche la musica leggera si è difesa bene. Nomi come Battiato, Battisti, De Gregori, Guccini o Branduardi hanno segnato la memoria musicale di generazioni. Cercare qualcuno che si sia particolarmente distinto tra polistrumentisti e innovatori è quantomeno arduo.  Tuttavia, forse, un nome lo si può trovare. Siamo a Genova, il 18 febbraio 1940, qui vede i natali il genio intramontabile di Fabrizio De André. “Faber” tra fine anni ’60 e inizio anni ’80 sbaraglierà la musica italiana con brani ormai classici intramontabili che all’epoca fecero molto più rumore di quello che si immaginava possibile per un 33 giri.

De Andrè si affaccia sulla scena musicale italiana negli anni ’60 con “La canzone di Marinella” (portata alla ribalta da Mina, già principessa della musica italiana, pochi anni dopo) in cui racconta la storia di una prostituta che era stata affogata in un fiume, fatto di cronaca nera che aveva segnato il quindicenne De Andrè che nel ’64 consacra alla storia il fatto con questo iconico brano. Poco dopo Faber pubblica “Volume 1”; dissacrante album in cui è ricorrente il tema delle donne di strada che De André, cresciuto sin da adolescente tra musica e bordelli genovesi, conosceva fin troppo bene. L’album contiene tracce che hanno fatto la storia della musica italiana come “Via del campo”, l’ironica “Carlo Martello ritorno dalla battaglia di Poitiers” e la sacrilega “Bocca di Rosa” che racconta esplicitamente la storia di una prostituta cacciata dal paese dove si era stabilita e che aveva trovato clienti tra carabinieri, mariti insoddisfatti e preti.  I riferimenti e gli attacchi alla Chiesa non si fermano e nel ’70 viene pubblicato “La buona novella”, reinterpretazione del vangelo. In seguito Faber pubblicherà due pietre miliari della musica italiana: “Storia di un impiegato”, storia di un giovane ex sessantottino che ascoltando una vecchia canzone del maggio francese ritrova lo spirito di lotta; e “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, liberamente tratto dalla raccolta poetica “Antologia di Spoon River”.

L’album tocca i vari temi in un modo estremamente innovativo: il tutto è la storia di un cimitero, o meglio, di coloro che lo occupano; i morti nell’album raccontano le loro vicissitudini legate al loro mestiere o a caratteristiche della loro vita. Brani appartenenti alla raccolta come “Un Blasfemo”, “Un giudice” o “Il suonatore Jones” rimarranno nella storia.  Nel ’79 De Andrè segnerà uno dei momenti più importanti della storia musicale italiana del ‘900: il concerto con i PFM a Firenze e Bologna. Faber lancerà dal palco una serie di dichiarazioni, anche politiche; una delle più toccanti, poco prima di intonare “Andrea”, quando dedicherà amorevolmente la canzone ai “figli della luna”, modo in cui Platone soleva chiamare gli omosessuali, prendendo una netta posizione contro le discriminazioni nei confronti di chi De Andrè si rifiutava di chiamare “diversi”. Questo fu uno dei caratteri fondamentali della musica di Fabrizio De Andrè: non parlava di chi era sotto i riflettori ma degli ultimi. Le canzoni di Faber raccontavano le storie di prostitute, di omosessuali, fu uno dei primi ad affrontare direttamente il tema della disforia di genere e le odissee vissute dalle persone transgender. Addirittura dalla parte dei carcerati con “Nella mia ora di libertà”.  Ad oggi, davanti alla costante difficoltà nell’affrontare temi come questi, per via di ambienti di sempre più conservatori, chiamati ad esprimere più che la libertà di pensiero ad attivare forme censorie e discriminanti, viene da chiedersi: “Che menti come quella di De Andrè non fossero troppo progressiste anche per i giorni nostri?”. O forse è parte del nostro mondo che, spaventato da progresso e integrazione, ha arbitrariamente deciso di tornare indietro a tempi in cui il diverso poteva solo fare paura e sull’accoglienza ci poteva essere un contraddittorio. 

Ma Faber forse aveva immaginato anche questo scenario e, in una versione poi censurata de “La canzone del Maggio”, cantava con orgoglio “non potete fermare il vento, gli fate solo perdere tempo!”.  Chissà quanto tempo dovrà ancora passare prima del prossimo uragano…

Valerio Rosario Cardarelli

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